Diversi ex presidenti della Repubblica, prima di salire alla carica furono imprigionati per le loro idee politiche.
Essi conobbero la prigionia e non persero occasione per ricordare quanto quell’esperienza fosse stata dura e nel contempo formativa. Alcuni dissero apertamente, e sono daccordo, che chiunque operi nel campo della giustizia dovrebbe trascorrere un periodo di alcuni mesi in prigione, magari in incognito, senza per forza aver commesso reati, ma dovrebbe starci in prigione, subirne gli effetti così da sapere esattamente cosa proveranno i condannati e così dare pene eque, giuste, realmente commisurate. Ma oltre a ciò l’esperienza del carcere pur essendo peggiorativa per la maggioranza di chi ci finisce, è invece una specie di fornace che estingue o forgia il carattere.
Nell’opera “La tregua” (scritta nell’anno in cui venni al mondo), Primo Levi offre al nostro sguardo l’indimenticabile e straordinario ritratto di una compagna di prigionia, reduce dagli orrori di Birkenau:
“… una giovane donna, dal corpo disfatto e dal dolce viso chiaro, che conosce bene la perdita e la morte, e che lotta per non soccombere sotto il peso delle atrocità viste e subite in un anno di prigionia, specie in “quegli ultimi orribili giorni”, e di quegli ordini inumani, passivamente eseguiti per non morire.
Proviene da Trieste, la città dei venti, dei contrasti, dei ponti fra le diverse culture: un luogo che sembra somigliarle, forse per la versatilità del suo modo di essere, di parlare, di impiegare il tempo. … Frau Vita – così la chiamano tutti – non si ripiega sulle sue dolorose ferite e di giorno, per non soccombere, si butta a capofitto in una “attività tumultuosa” e multiforme, colma di “pietà frenetica” e “furia selvaggia”, ma sempre orientata alla cura amorevole dell’altro. Forse sarà proprio questo uscire da sé che le consentirà di salvare se stessa e la sua dignità.
Quando può, dopo aver corso senza posa da un reparto a un altro, Frau Vita cerca consolazione, riparo e forza nel calore della parola, perché «esiste una fame spirituale di colloquiare che è più tormentosa di quella fisica»
Alla sera, quando tutto tace, “incapace di resistere alla solitudine”, Frau Vita si abbandona teneramente alle sue canzoni e ai suoi folli “sogni di fiaba”: in circostante così estreme, il dono della fantasia può diventare una barriera protettiva importantissima, e il pensiero può finalmente correre nell’infinito.
Anche mio zio Luciano è stato imprigionato a Birkenau, al posto del fratello fuggito con i partigiani. Lui però ha interiorizzato quella terrificante esperienza, sopravvissuto solo perché sapeva aggiustare e lucidare gli stivali ai graduati nazisti, dopo la fuga e il tragicomico rientro in Italia, ha trasformando l’ultimo tratto della sua esistenza nella celebrazione della vita qui e ora, con i suoi sorrisi solari, le sue poche parole sempre costruttive, i suoi silenzi e quegli sguardi nei quali intuivi lontananze e l’infinito adesso dell’anima consapevole. Forse il mio DNA è più simile al suo che a molti altri parenti. Perché 50 anni dopo vivo quasi come lui, almeno mi sembra dai ricordi intensi e profondi che ho del tempo trascorso in sua presenza. Ho persino sognato di stare con lui e la sua amata moglie e per me zia Piera esattamente nelle due notti in cui sono trapassati. Come fossero passati entrambi, delicatamente nei sogni, a salutarmi e mostrarsi oltre quel cancello vestiti nei loro abiti più belli e con quei modi d’altri tempi.
Mi basta pensarci, li rivedo sorridenti ed eterei. Miei cari maestri, anime affini, umani e spirituali ancora vagamente consapevoli.
Per memoria e grazie alla comodità delle ricerche digitali, riscopro similarità non meno che con Oscar Wilde. Mai sentito “De Prufundis”? Pagine piene di confessioni struggenti, di riflessioni profonde e così intime che portano a chiedersi se si stia leggendo un romanzo o stia spiando dal buco della serratura dell’anima di un uomo. Il dolore che esprime nelle sue parole, è un dolore universale, che appartiene a tutti noi, a tutti coloro che nella vita, hanno imparato il valore immenso della consapevolezza.
Forse le uniche differenze sono l’orientamento sessuale, e il fatto che non riemerse da temprato reduce, ma distrutto, perì.
Attraverso l’incontro con il figlio di Dio, Wilde salva la sua anima: conosce l’accettazione; comprende che l’unica cosa che poteva fare per salvarsi era accettare tutto “avevo toccato la mia anima, oserei dire, nella sua ultima essenza. Ne ero stato il nemico, in molti modi, ma infine la trovai ad aspettarmi come un amico” e ciò avviene quando ci si libera dalla zavorra della superficialità, da tutte le aliene passioni.
Ripetere giova:
“Diventare un uomo più profondo è il privilegio di chi ha sofferto, e tale credo sia il mio caso”.
Vivere da reduce, Vivere da reduce come lo intendo qui, nella presenza e la grazia della gratitudine, è dunque il privilegio acquisito, la magnificenza quotidiana, la celebrazione di vivere la vita in vacanza perpetua, e di esserne consapevole.
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