Tra le vite e la vita senza epiloghi
“La vita accade quando smetti di fare, ragionare, volere” scrive Bruno Ferrari nel quarto epilogo di Ancora qui. Ed è forse la risposta cercata in una lunga narrazione nervosa piena di rotture e di riflessioni, molto simile al romanzo e alla vita.
La quale è sicuramente un’entità che si distende in una dimensione temporale in cui si può essere manager, poeta, prigioniero o atleta, ma è soprattutto evidenza di una ragione né logica, né lineare che improvvisamente irrompe e non per averla cercata o chiamata. Perché il suo volto è ignoto e la fretta, le convenzioni, il formulario che guida la sua ricerca è pieno di segnali e indicazioni che introducono in uno schema dove ogni sicurezza è prestata e si regge sull’effimero di promesse simili al canto delle sirene. E allora può accadere che la vita rimanga sommersa sotto un pesante apparato che la tiene prigioniera. Paradossalmente la prigionia può obbligarti a non contare sugli schemi rassicuranti ed è appunto in tale condizione che “Vito per i detenuti e Ferrà per le guardie” troverà la vita, quella che nessuno è in grado di concedere. Ancora qui smonta il meccanismo lineare della vita che si srotola nel tempo come un tappeto ed entra nelle sue funzioni che riportano al modo e alle ragioni che le producono. Perché lo stesso evento, lo stesso padre, lo stesso luogo possono essere dolore o gioia, sicurezza o paura, pace o bellezza e le molte possibilità tra l’uno e l’altro effetto, a seconda della narrazione in cui prendono forma.
Più che una storia lineare, Ancora qui è la narrazione di eventi, di luoghi e persone, ognuno legato ad una propria dinamica, pezzi di un tempo volutamente confuso che invita a ricercare la verità più nel farsi della narrazione che negli eventi da cui si suppone prenda origine. Perché il filo non è dato dall’evidenza, ma da quello che essa nasconde. Il gioco delle parti è solo apparente, è funzionale ad una ragione prima e nascosta che non appartiene all’evento, ma lo sottende.
Il percorso narrativo è strutturato su uno schema Epilogo, Prigioniero, Manager, Atleta, Poeta che si ripete. Non mancano i vuoti, i luoghi comuni e accenni di moralismi innecessari, ma procede con un sistema che crea sospensioni discorsive capaci di coinvolgere il lettore lungo un percorso non scontato. L’artificio dell’epilogo messo invece nella parte introduttiva di ogni capitolo tenderebbe a indicare di cercare non tanto l’accadimento, ma la sua ragione.
Di particolare effetto è la tecnica narrativa con cui Bruno Ferrari riesce a dare i segni di un rancore da cui emerge una realtà fatta di eventi che si vorrebbe non fossero mai avvenuti, di accadimenti nei quali non sempre è possibile trovare una ragione, di una specie di nervosismo che induce alla fretta e non si capisce bene se è per liberarsi al più presto dell’accaduto o per giungere ad una qualche soluzione razionale. Ogni segmento della narrazione resta quindi volutamente circoscritto in una propria dimensione che potrebbe addirittura sembrare assurda.
La vicenda non ha uno sviluppo nel senso che l’Autore non dispone gli eventi in una successione temporale e neanche di causa ed effetto. Si capisce che Vittorio è Vito, Tore o Vittorino, è atleta, è poeta, tanti nomi per un unico personaggio in cerca di se stesso.
L’inizio è paradossalmente un “Epilogo”, evidenza di un percorso già compiuto da cui guardare all’accaduto con occhio consapevole; quindi il contesto indicato con il disegno di quattro cerchi o sfere in cui vengono collocati rispettivamente un atleta, un poeta, un manager e un prigioniero e poi ancora quattro cerchi relativi ad una categoria, essendo ognuno il denaro, il sesso, il successo e il senso della vita e poi ancora altri cerchi del significato: Ethos, Pathos, Logos, Eros. E’ il vero percorso scritto fra le righe: a volte si può leggere tra gli avvenimenti; altre volte è appesantito da spiegazioni superflue; e non manca qualche luogo comune. Lo sforzo narrativo viene comunque premiato e l’opera riesce a mantenere una qualità quasi continua.
Poi c’è il “Prigioniero” con il “vuoto” del carcere, il rito dell’espropriazione della personalità con i suoi meccanismi. Il personaggio è Vito per i detenuti e Ferrà per le guardie da cui si comincia a pensare – non a capire – che l’autore c’entra qualcosa con ciò che accade e anche con ciò che si porta dentro, rancore e desiderio di vendetta. E poi la successione secondo lo schema indicato.
Il carcere è il punto più basso ed è perciò il segno di un nuovo inizio che non è comunque di redenzione come accade in opere come Delitto e castigo. Si intuisce che non esiste una colpa da mondare. Si capirà che cosa è accaduto soltanto alla fine. “Arrivò a stare male, più ci pensava più l’ebbrezza della vendetta gli dava la nausea. Tanta violenza non faceva parte di lui…dalle viscere sapeva che non si ripaga la morte con la morte” e sono detti che aprono la narrazione ad un qualche spiraglio o comunque ad altre possibilità, in uno stato oscillatorio “tra la voglia di vivere e la voglia di morire”.
C’è l’isolamento, la visita dei genitori, il carcere è quello di Milano. Si scopre che è accusato di omicidio il che lo rende un carcerato “regolare” senza saperne il significato.
Poco a poco compaiono altri personaggi, come la moglie Rossella e l’amante, l’ex operaio Vittorio Ferrari poi imprenditore, il poeta Tore, scene dell’infanzia, Russo, Mauro, Giulia, Sabrina. In questi passaggi Tore si accorge di amare la scrittura e di trovare stimolo più nella sofferenza che nella felicità. Sono i primi timidi passi lungo un cammino ignoto nel quale comincia a percepire che “nulla è mai come appare”. Quindi irrompe il senso della vita.
In questo contesto “il male di vivere si faceva largo conquistando ogni centimetro lasciato dalle speranze esauste” e quindi in successione, l’emorragia e il lungo periodo di guarigione, la cella con il termosifone tiepido, i conflitti del carcere e le alleanze, l’incontro con Mariano “il capo indiscusso” di cui diventa lo scrivano ricevendo protezione.
Risparmio altre indicazioni al lettore che troverà motivi, certezze, dubbi, scoperte, rabbia e anche amore; invito soltanto a fare attenzione alla tecnica narrativa che tali categorie riesce a disegnare in uno spaccato con segni che portano alla vita e fino all’epilogo, questa volta al posto usuale. “Sono cambiate persino le fiabe, figuriamoci se vissero felici e contenti, qui non vissero nemmeno tutti, e solo alcuni furono felici, gli altri rimasero contenti sebbene avessero compreso solo in parte ciò che era avvenuto”, dove in fondo si dice che non esistono epiloghi, ma soltanto la vita.
Venezia, 8 dicembre 2020
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